La recente pronuncia della Cassazione sul soggetto attivo del reato di rivelazione di segreti inerenti a un procedimento penale

Ai sensi dell’art. 379-bis del codice penale, “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, chiunque rivela indebitamente notizie segrete concernenti un procedimento penale, da lui apprese per avere partecipato o assistito ad un atto del procedimento stesso, è punito con la reclusione fino a un anno.

La stessa pena si applica alla persona che, dopo aver rilasciato dichiarazioni nel corso delle indagini preliminari, non osserva il divieto imposto dal pubblico ministero ai sensi dell'articolo 391 quinquies del codice di procedura penale”.

La norma tende ad offrire una tutela rafforzata e specifica al segreto investigativo.

La previsione normativa contempla due distinte condotte di consumazione del reato.

La prima consiste nell'indebita rivelazione di notizie segrete, avente come indefettibili presupposti la partecipazione o l'assistenza ad un atto del procedimento, che assurgono, pertanto, al rango di elementi costitutivi dell’illecito penale.

La seconda viene integrata mediante la violazione dell'obbligo al segreto imposto dal Pubblico Ministero ai sensi dell'art. 391-quinquies, che presuppone l'avvenuto rilascio di dichiarazioni all'organo requirente ai sensi degli artt. 362 o 363 c.p.p.

Quest’ultima, nettamente definita nella sua materialità, non ha costituito oggetto di particolari criticità applicative.

La prima ipotesi, invece, genera maggiori difficoltà interpretative, recentemente affrontate della sezione VI della Corte di Cassazione, la quale, con la Sentenza n. 47210 del 28.12.21, ha espresso il seguente principio di diritto: “L'art. 379-bis cod. pen., prima ipotesi, trova applicazione esclusivamente nei confronti delle persone che, in assenza delle relative qualifiche funzionali di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio, non sono già tenute all'obbligo del segreto di cui all'art. 329 cod. proc. pen., la cui violazione trova sanzione nell'art. 326 cod. pen.; partecipazione ed assistenza attengono alle fasi di formazione o di messa in esecuzione dell'atto processuale promanante tanto dall'autorità giudiziaria o da suoi delegati ed ausiliari quanto dal difensore nell'ambito delle indagini difensive ma non a quelle della ricezione dell'atto stesso o di soggezione ai relativi effetti”.

In sostanza, la Corte ritiene necessario delimitare l'ambito di applicabilità della previsione in esame, poiché, per quanto ampio possa essere il novero dei soggetti attivi del reato, esso non potrà mai ricomprendere coloro che risultano semplicemente assoggettati all’esecuzione dell’atto stesso.

Nel caso sottoposto all’esame del Supremo Collegio, la Corte territoriale aveva confermato la sentenza di condanna di primo grado emessa nei confronti di un imputato ritenuto colpevole del reato de quo per avere rivelato a due persone il contenuto di una richiesta di consegna di documentazione formulata dal Pubblico Ministero ai sensi dell’art. 248 c.p.p., nell’ambito di un procedimento instaurato a carico di un altro soggetto. Il prevenuto, in particolare, era stato incaricato dal destinatario della richiesta, di reperire e predisporre la documentazione occorrente.

Tuttavia, con la pronuncia in commento, la Corte di Cassazione ha annullato senza rinvio la sentenza della Corte d’Appello poiché, ad avviso del Collegio, s’impone un’interpretazione sistematicamente e logicamente circoscritta della prima parte dell’art. 379-bis c.p. sotto il profilo sia soggettivo che oggettivo, interpretazione declinata nel principio di diritto sopra riportato.


Fulvio Anzaldo - Legalassociati Milano

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